Il ricordo di un 12enne urlante alle tre del mattino, davanti la tv in bianco e nero accesa nella camera dei genitori. Grida nella notte “allenate” dalle epiche sfide Benvenuti-Griffith e dall’allunaggio di Armstrong nel Mare della Tranquillità
La voce di Aretha Franklin di Burt Bacharach, colonna sonora del Mundial ’70
Gli interminabili 125 minuti di Italia-Germania 4 a 3
Albertosi; Burgnich, Facchetti; Bertini, Poletti, Cera; Domenghini, Rivera, Boninsegna, De Sisti e Riva. Allenatore Valcareggi.
Dall’altra parte Maier; Vogts, Held; Schnellinger, Schultz, Beckenbauer; Grabowoski, Overath, Seeler, Muller e Libuda. Allenatore Schon.
Il tutto affidato all’arbitraggio più anonimo, quindi il migliore, della storia del calcio, il messicano Arturo Yamasaki a cui va il merito imprescindibile, in un’epoca di non recupero, di non fischiare mai la fine… rendendo possibile il miracolo, quasi al 92°, esattamente al minuto 91 e 48 secondi, al milanista Schnellinger… in attacco solo per guadagnare più rapidamente la via degli spogliatoi!
Il “partido del siglo” venne disputato e vinto da una Nazionale dejuventinizzata da Valcareggi, capace di fondere in una squadra autentica Cagliari e Inter nel Mundial ’70, come Fabbri fu sfortunato nel non riuscirvi, quattro anni prima in Inghilterra, tra Bologna e la stessa Inter, sbattute fuori dal dentista coreano del nord Pak-Doo-Ik!
Ma torniamo a quel 17 giugno 1970, anzi per me piccolo italiano di 12 anni, sette ore avanti col fuso orario, già 18 giugno.
All’epoca della tv in bianco e nero, con le partite, ma solo alcune, in diretta alle 20 e a mezzanotte, le famiglie usavano consigliare i maschietti di casa di andare a dormire presto e puntare la sveglia a mezzanotte, giusto in tempo per l’ingresso in campo dei nostri “eroi”-
Eroi insomma mica tanto, visto il cammino fin li messo insieme dagli Azzurri, ma pur sempre di Italia-Germania si trattava.
In casa mia, comunque, nessun riposino pomeridiano. Del resto ero ormai più che allenato alle imprese notturne, addirittura radiofoniche!
Era il 17 aprile 1967 al Madison Square Garden di New York (le 4 del mattino del 18 aprile qui da noi) quando tutta Italia, me compreso di appena 9 anni, mise la sveglia per davvero per collegarsi con la radio e ascoltare il racconto di Paolo Valenti (l’inventore in seguito di 90° minuto) su Benvenuti e Griffith, primo atto di una triologia valida per il Mondiale pesi Medi.
Ad ascoltare l’epica cronaca proveniente d’oltre Oceano, 18 milioni di Italiani… oltre me e i miei genitori. Mia sorella Patrizia, 7 anni, preferì inconsciamente dar retta al primo Ministro Aldo Moro che, da buon democristiano, padre della famiglia Italia, vietò la diretta tv temendo un assenteismo dilagante (che in effetti ci fu lo stesso) al lavoro e nelle scuole.
Ma la prova generale all’impresa messicana la vissi giusto l’estate prima, avevo quindi 11 anni, con la storica conquista della Luna il 20 luglio 1969, stavolta con maratona tv che si protrasse al 21 luglio quando Neil Armstrong alle 2 e 56, secondo il tempo coordinato universale ma non per Tito Stagno e Ruggero Orlando, mise piede nel Mare della Tranquillità.
Pure stavolta, come con Benvenuti e in seguito Italia-Germania, segui l’evento nella camera dei miei genitori dove papà aveva piazzato una delle molte tv di cui è sempre stato grande appassionato.
Nessuna notizia di mia sorella 10ene, più incline a dormire sonni tranquilli, lontana da passi, pugni e calci!
Così quando alle 2 di notte la Germania rivinse il sorteggio per l’avvio dei supplementari e toccò a Boninsegna passare corto per Rivera… ci voleva ben più di una piccola preghiera per credere ancora nella finale delle finali col Brasile. In palio l’aggiudicazione della Coppa Rimet avendo Italia e Brasile vinto il trofeo due volte ciascuno. Ma questa è un’altra storia, finita male ma come cancellata, almeno per noi italiani, dalla irripetibile notte dell’Atzeca.
“Dico una piccola preghiera per te”, del resto, costituiva un pò la colonna sonora di quel Mundial lontano, distante oltre 10.000 chilometri ma praticamente sotto casa grazie all’armonica interpretazione di Aretha Franklin di “I say a little prayer” sulle note disegnate da Burt Bacharach (oggi 92 anni, altro maestro, ancora vivente, di casa nella famiglia Pangrazi grazie ad un altro amore di mio padre, stavolta per la buona musica).
L’inno del Mundial non era certo nelle nostre teste quando Karl Heinze Schnellinger, dimentico di essere calcisticamente italianissimo, mise in rete in spaccata solitaria. Si trovava li perchè la partita era finita da un pezzo e aveva solo desiderio di guadagnare più rapidamente possibile gli spogliatoi!
All’epoca della tv in bianco e nero, ricordo ai giovincelli, la seconda voce di commento non era stata ancora “inventata”; e neanche il lento trascorrere del tempo, con risultato annesso, era ancora passato nelle menti di nessuno.
Si teneva il conto del tempo ad occhio e tutti, avresti potuto giurarci o rimetterci l’orologio, erano perfettamente in grado di dirti quale minuto si stesse giocando, come dotati di uno speciale orologio interno. Le partite, poi, finivano rigidamente allo scoccare del 90°. E poca importavano sostituzioni, falli, interruzioni. Per noi italiani era come eleggere la tattica al potere! Fare un gol e poi nascondere la palla all’avversario con qualsiasi modo. Lecito ma molto meglio se al limite della sportività o totalmente inadatto. Come a ciascun vero italiano tifoso di calcio piace di più.
Quel pomeriggio, invece (perchè in Messico la partita regolare terminò attorno alle 19 locali), Martellini come in preda ad un presentimento cominciò il conto alla rovescia già 5 minuti prima del 90°, scandendo il tempo che ancora restava almeno ogni 20 secondi.
Fu così, quando il biondo teutonico milanista insaccò, al minuto quasi 92 completato, che l’Italia intera pregò idealmente Bacharach perchè davvero, a questo punto, l’Italia non ce l’avrebbe mai più fatta.
Mio padre, da buon tifoso bolognese, abituato a subire i torti del Dio Eupalla (il Bologna riuscì nell’impresa di farsi buttar fuori dall’allora Coppa dei Campioni dopo un doppio confronto in parità e un terzo spareggio finito 0-0… deciso dalla monetina!) scosse la testa.
“Non ce la faremo mai. Sono sfiniti… ora crollano”.
Anch’io, seduto a bordo lettone, pensavo la stessa cosa. Il cuore mi portava a sperare ancora ma era chiaro a tutti che ora, dopo un’ora e mezza di difesa con marcature a uomo fin dentro gli spogliatoi (perchè una volta, nonostante il 4-3 finale, si apprezzava moooooolto più le squadre capaci di non farti segnare rispetto alle mattanze di 4 o 5 gol) non c’era da illudersi.
A preoccuparmi, poi, c’era il letto che, attorno alle 3, vincenti o meno, mi aspettava nella mia cameretta in fondo al corridoio e vista su Corso Mazzini.
Come addormentarsi dopo una simile scarica di adrelina? Alla domanda la partita, nel frattempo ripresa col tocco di Boninsegna per Rivera (segno del destino come sul quarto e decisivo gol) non mi diede tempo
di rispondere.
Calcio d’angolo per i crucchi (che nel frattempo avevano già ribattezzato Riva del Garda in Muller del Garda!) e un innocuo tentativo di Cera di servire indietro Albertosi da al maledetto Muller l’opportunità di trasformarsi in un cobra infilando il pallone dell’1 a 2!
Urla e maledizioni, dalla finestra aperta su via San Francesco, riecheggiarono in casa da ogni dove. Sembrava davvero finita. Il crollo di ogni speranza. La resa incondizionata al nemico. Insomma un altro 8 settembre, stavolta calcistico.
Spinti dalla disperazione a volte, però, gli italiani danno il meglio di lori stessi. I tedeschi dovrebbero saperlo discretamente bene ma per nostra fortuna non hanno studiato…
Così, spinmgendo avanti persino Burgnich, uno che nella vita non aveva mai oltrepassato il proprio centrocampo, quasi ignaro di cosa ci fosse dall’altra parte… si ritrova servito sul suo zampone di elefante una goffa respinta… solo da spingere in rete.
E’ il 2-2 in pochi minuti e tutto questo, già solo fin li, non era assolutamente prevedibile.
Ad Osimo e Muller del Garda le sensazioni appaiono così ribaltate. Gente urlante e in canottiera appare e scompare dalle finestre, mentre sul Lago di Garda, in vantaggio o meno, piovono birre, incuranti dell’ora.
Ma davvero non c’è più tanto spazio per pensare. C’è solo da vivere. 21 minuti di emozioni pure in cui Italia e Germania (Ovest all’epoca) hanno incastonato ben 5 perle, 5 coltellate assassine, 5 gioie da tramandare ai poveretti nati dopo!
Ancora un secondo e Gigi Riva si ricorda di essere un bomber implacabile (sarebbe dovuto giungere al Bologna in cambio di un Pascutti declinante, ma senza il fiuto di Dall’Ara fu lo stesso Bologna a rinunciare!) e cambia i connotati a Muller del Garda, rifacendola italiana.
Italia-Germania 3-2, tutto fatto? Si, tutto fatto il primo tempo supplementare. Ci sono ancora quindici minuti di gioco, più il recupero. Ormai lo sappiamo.
La partita sarebbe comunque finita con la vittoria italiana se al 5° del secondo supplementare un maligno colpo di testa di Seeler, deviato dal solito Muller, non corresse veloce verso il palo sinistro di Albertosi. Niente paura. Attaccato al palo c’è Gianni Rivera, un calcione, anche se non è da campione, e palla in tribuna.
Macchè, il golden boy, come ubriaco dalla fatica, si addormenta a guardare la traiettoria maligna del pallone. Rivera è quasi costretto ad attaccarsi al palo, come a scansarsi da quel contatto inevitabile. E ci riesce! Palla nel sacco e punteggio per l’ennesima volta tutto da rifare: 3 a 3!
Enrico Albertosi, da ottimo portiere e da consumato giocatore di poker com’era, prima guarda Rivera fisso negli occhi e poi lo insulta a sangue fino alla settima generazione mandando l’abatino nel paese che merita.
Anche le finestre osimane fanno altrettanto. Gianni ha sbagliato. Alla grande. Senza sia possibile, ancor oggi che sono trascorsi 50 anni, comprenderne il perchè tecnico.
Bersaglio di giuste maledizioni, il numero 10 italiano per eccellenza, decide di imboccare rapidamente la via della redenzione o di restare a vita ospite del Messico.
Per ristabirsi tra i Santi del calcio, Gianni Rivera impiega giusto 21 secondi. I 21 secondi meglio spesi della vita di decine di milioni di spettatori!
Palla allo stesso Rivera, corto a centrocampo per De Sisti e da questi a Facchetti.
Lancio sulla fascia sinistra per Boninsegna che controlla, corre sul fondo, salta Schultz e – una volta in area a fondo campo – ad occhi chiusi rimette indietro come è scritto alla pagina uno de manuale del calcio.
Manuale scritto non a caso anche da Rivera che, con le urla di Albertosi ancora nelle orecchie, si presenta solitario in area, all’appuntamento col pallone e il destino.
Chiunque avrebbe toccato il pallone di potenza, dritto per dritto. Ma lui è Gianni Rivera, il golden boy, l’unico a giocarsela alla pari con un altro grandissimo numero 10: Giacomo Bulgarelli, non per niente eroe azzurro sfortunato con la Corea.
Gianni tocca il pallone di piatto, di precisione, mandando quello scimmione di Maier lentamente, molto lentamente, dalla parte opposta della porta. La palla ha così tutto il tempo di salutare definitivamente l’allegra brigata tedesca di Riva del Garda, beffare spalla lussata Beckenbauer, salutare mister Schon, baciare ad uno ad uno tutti gli emigrati italiani in Germania e persino posare per un antesignano selfie ricordo con l’autore.
E’ il degno compimento finale di Italia-Germania 4-3 che, detto tra noi, chissà quanti miliardi, tra interessi e vendette in spreed, ci sarà costato nel lungo corso di mezzo secolo! Mai, però, soldi – vecchie lire o euro simil marchi – furono ben spesi.
“Che magnifica serata telespettatori italiani…”- cantava da Città del Messico Nando Martellini, come di fronte ad un Leonardo o un Michelangelo inaspettato.
Magnifica serata per la gloria e per la storia italiana che sullo stellone del 4 a 3 seppe, in seguito, costruire un autentico mito su cui far leva nei momenti più oscuri.
Socchiudendo la finestra su Corso Mazzini per rivivere a letto la moviola del pensiero, eravamo già allora certi di un grande privilegio. Avevamo appena avuto la grande fortuna di soffrire in diretta la partita del secolo; il concentrato del meglio e del peggio del gioco del calcio. E dell’avventura della vita abbinata allo sport.
Quelli che c’erano l’hanno subito pensato. E lo pensano ancora!