La trattativa Stato-Mafia premia anche uno dei boss più feroci della ‘ndrangheta: Domenico Perre, 64 anni, negativo al virus. I giudici lo spediscono ai domiciliari perchè “in carcere avrebbe potuto ammalarsi”
Tra mafiosi e camorristi in libertà non poteva mancare, in questa strana Italia, anche la libertà – nella sua Platì – anche i sequestratori di persona!
A conoscere la bontà dello Stato verso la criminalità organizzata, è toccato questa volta a Domenico Perre, 64 anni, sequestratore nel 1997 dell’imprenditrice milanese Alessandra Sgarella.
Anche per Perre, rimandato a casa attorno al 22 aprile, il Covid c’entra molto poco o nulla. Anzi niente.
La semplice “paura” per lo Stato, però, che un boss della delinquenza organizzata possa risultare prima o poi contagiato dal virus cinese, ha immediatamente convinto i giudici a liberarsi la coscienza e anticipare qualsiasi evento il destino possa decidere di riservare.
Ancora una volta, per la serie “non sia mai che un boss ci si dovesse ammalare in carcere” i giudici hanno preferito giocare d’anticipo fregando la malattia!
Se il destinato ha scritto per Domenico Perre il contagio da Covid 19… la positività scatterà in Calabria, a casa sua e comunque ben lontano dal carcere di Opera dove Perre ha trascorso, da detenuto, gli ultimi 22 anni.
Il sequestro Sgarella, all’epoca, fece parlare molto l’Italia e si concluse, quasi un anno dopo, nel settembre 1998 nel comune di Locri, con l’ennesima trattativa Stato-Mafia e la liberazione dell’imprenditrice.
In cambio della vita della donna, robusti favori carcerari a “Peppe u Nigru”, al secolo Giuseppe Barbaro, boss potente e carismatico di tutta la ‘ndrangheta, morto nel 2012.
Trattativa dopo trattativa giungiamo così ai giorni nostri con i giudici di Sorveglianza del Tribunale di Milano attenti ad accogliere l’ennesima istanza degli avvocati di Perre nel richiedere il ritorno a Platì per il boss.
Richiesta di scarcerazione accolta come una liberazione dai giudici, quasi premurosi affinchè a Perre nulla di male potesse accadere, vista la già precaria salute.
Pur non correndo rischio alcuno, le toghe milanesi hanno valutato impossibile prevedere il futuro e nel dubbio – contagio si o contagio no – hanno certificato la sicura incompatibilità della detenzione in cella di un malato da virus.
Peccato che Domenico Perre, dal punto di vista cinese, goda ottima salute, sano come un pesce! Ma se il boss si fosse davvero ammalato, che fine avrebbe fatto e dove sarebbe finito il proverbiale senso di umanità italiano… che pervade, anche col peggiore degli ergastolani, l’intera materia di esecuzione della pena detentiva?
Vittima di un infarto nel 2013 e da allora sottoposto a terapia per una serie di episodi ischemici, Perre a detta dei suoi difensori, da tempo avrebbe dovuto essere assistito a casa. Istanze regolarmente respinte al mittente dai giudici, per i quali il carcere di Opera (Milano), dove è stato trasferito dopo i primi anni di detenzione a San Gimignano (Siena), è sempre stato in grado di offrirgli assistenza sanitaria efficace in caso di bisogno.
Con il “libera tutti” decretato ai mafiosi‚ Perre è ormai da un mese e mezzo in sostanziale libertà. Ad attendere il boss, ad aprile, fuori dal carcere, hanno direttamente pensato i familiari del sequestratore, liberi di riportarlo a Platì senza scorta alcuna. Quella Platì, tanto per intenderci, roccaforte storica della più feroce ‘ndrangheta calabrese e con il Comune perennemente retto da un Commissario prefettizio… dopo il quarto scioglimento di fila per mafia!